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VIOLENTO
WESTERN
EMOZIONANTE
Una storia amara per molti versi, ma da leggere di sicuro!
UNA STORIA PROPRIO BELLA!
5/5
Linda Lercari
​
Questo romanzo italiano svecchia il genere letterario.
CONSIGLIATISSIMO!
5/5
Orazio Cioffi
PORTLAND - LA CITTÀ DEI DANNATI
​

«Se devi sparare, spara bene.»

È così che dice lo straniero dopo averti ammazzato. Lui ha una sola cosa in testa, la vendetta.

È vecchio ormai, la Guerra Civile è lontana quasi vent’anni, eppure s’è fatto tutta l’America da costa a costa, da sud a nord a cavallo con una sola idea ficcata nel cervello.

Trovare chi è stato. E farlo fuori.

E non gliene frega niente di quanti cadranno sotto il piombo delle sue Colt del Sessantuno. Non gliene frega. Niente.

 

Ma poi si ritrova a vagare nel sottosuolo d’una città dedita all’alcol, alla droga e alla prostituzione. Si ritrova a vagare in un viscido sottosuolo, cupo e merdoso, dove in ogni angolo di tunnel senza fine t’imbatti in bordelli cinesi, fumerie d’oppio, contrabbandieri e schiavi. Sì, schiavi. Perché a Portland rapiscono le persone. Ne rapiscono a decine ogni sera. Rapiscono i bovari che vengono a spendere i loro dollari in una città-saloon e poi si ritrovano imbarcati a forza sulle navi mercantili. E poi rapiscono le donne. E alle donne va molto peggio. Se sei una donna e ti capita d’esser trascinata giù in una botola, per te è finita. Avrai un solo obiettivo nella tua vita: morire. Fino a quel momento dovrai spalancare le cosce lì nel sottosuolo, in un saloon o in un bordello o chissà dove.

 

Allo straniero non frega proprio niente di tutti loro. Non sapeva neanche che esistessero prima d’ora, e se l’avesse saputo se ne sarebbe infischiato. Lui ha solo la vendetta in testa. Solo la vendetta.

E ora si ritrova a vagare là sotto. E sta aiutando gente che non credeva neanche lontanamente di poter mai aiutare.

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PRIMO CAPITOLO

-1-

 

 

 

 

 

 

 

Quella sera nessuno si accorse dello straniero col cappello grigio quando varcò la soglia del Dooley’s Saloon. Il locale era troppo affollato. Il pianista picchiava duro sulla tastiera, le sgualdrine adescavano i clienti stuzzicandoli con le piume di struzzo e mostrando le cosce nelle calze a rete; il whisky a base di tabacco e zucchero scorreva a fiumi, la birra calda lo accompagnava.

   C’erano un sacco di tavoli da poker nella sala, ma lo straniero dal cappello grigio andò dritto a quello in fondo, quello dove giocavano gli scagnozzi del signor Dooley, il padrone del locale. Erano in quattro, ghigne affilate, bicchieri e dollari sul tavolo, carte in mano e pistole nelle fondine. Ce n’erano altri tre che tenevano d’occhio il locale, uno era appoggiato alla balaustra delle scale in alto e giocherellava con un orologio a cipolla, uno scherzava con una sgualdrina all’angolo accanto alla porta cercando di infilarle le mani sotto la gonna, l’ultimo sorseggiava birra al bancone. Erano pistoleri svelti, ma nella baldoria del saloon anche loro non si accorsero dello straniero, finché lo straniero non estrasse le pistole.

   Le due Colt Navy del Sessantuno iniziarono a cantare, ruvide e sorde. Prima stesero i quattro al tavolo da poker che capriolarono insieme alle sedie, chi con un buco in testa chi con un secondo ombelico. Poi quello al bancone che si aggrappò alla bottiglia di whisky e cadendo giù strappò via dal chiodo lo straccio per asciugarsi i baffi. Infine quello accanto alla porta che aveva già impugnato la pistola ma non aveva fatto in tempo a sparare, e piombò per terra lasciando uno schizzo di sangue sul muro e la puttana a strillare. Lo straniero si era già voltato verso l’ultimo pistolero che scendeva di corsa le scale sparando all’impazzata, prese la mira e lo centrò in pieno petto facendogli ruzzolare gli ultimi gradini.

   Il saloon si era svuotato. Le facce delle sgualdrine rintanate sotto i tavoli erano pitture graffiate con le mani, il pianista era un pezzo di legno aggrappato alla tastiera. Solo il barista aveva trovato il coraggio di prendere la pistola da sotto al bancone e puntarla in faccia allo straniero, ma la mano gli tremava e la fronte era un fiume. Chi ebbe il sangue freddo di sbirciare tra i tavoli, vide lo straniero dal cappello grigio prendere a passo sicuro verso di lui, fissarlo dritto negli occhi senza batter ciglio e strappargli la pistola di mano con uno scatto. La gettò via mentre il barista correva fuori con le brache sporcate, poi puntò dritto verso la porta a doppia anta in fondo alla sala, quella dell’ufficio del padrone.

 

   La porta dell’ufficio di Dooley si spalancò di schianto lasciando la placca della serratura che ciondolava divelta dal legno. Lo straniero poggiò lo stivale a terra e si fermò sulla soglia con le pistole in pugno mentre gli occhi d’acciaio perlustravano già il salottino. C’era carta da parati con gigli neri, l’orologio a pendolo nell’angolo ticchettava, alla scrivania in mogano non c’era nessuno, due passi più in là c’era la cassaforte in acciaio brunito e decori in ottone. Gart Dooley non c’era, oppure Gart Dooley era un codardo e si era nascosto bene; e infatti un attimo dopo sbucò da dietro il sofà gridando come grida chi ha paura.

   Era un piccoletto con le basette folte, stempiato. Attraversò di corsa il salottino vomitandogli contro tutti i sei colpi della Smith & Wesson usando il palmo della sinistra per ricaricare il cane. Lo straniero dal cappello grigio non batté ciglio; c’era due cose che i pistoleri, quelli veri, imparavano presto dalla vita: a non fare stupidi giochetti con le pistole e a prender bene la mira. Si prese il suo tempo puntandogli l’addome, poi sparò centrandogli lo sterno. Gart Dooley ruzzolò sulle assi di legno come un sacco di patate, poi si rialzò sui gomiti e si trascinò verso la parete. Gemeva a denti serrati, dal pungo chiuso sulla ferita sgorgava tanto sangue come se stringesse un’arancia spremuta.

   «Chi cazzo sei?»

   Sputacchiava tra i denti macchiati di rosso, il volto era cartapesta, faceva versi come se stesse per vomitare. Lo straniero si avvicinò a passo lento, tintinnando gli speroni, fino a sovrastarlo. Gli stracci di fumo si dissipavano attorno a lui facendolo somigliare a una statua di cera. Sbottonò i primi due bottoni dorati della redingote blu lunga fino al ginocchio, i baffi e il pizzetto grigi erano curati, le rughe attorno agli occhi erano solchi scavati dal sole. Estrasse una vecchia foto dalla giacca e gliela mostrò. Gart Dooley strinse gli occhi per guardarla bene, poi corrucciò lo sguardo come chi rammenta qualcosa, e scoppiò a ridacchiare storcendo la bocca per la ferita.

   «T’hanno mandato fin qui per quella puttana?»

   Lo straniero rimase impassibile. Gli occhi erano diamanti azzurrini. Gli puntò la pistola alla gola e tirò su il cane. Nello sguardo non passò niente, chiunque l’avesse visto avrebbe giurato d’aver visto gli occhi del demonio, occhi che non batterono ciglio quando il dito premette il grilletto, e la palla di piombo squarciò la gola di Dooley e si piantò nelle assi del muro.

   Lo straniero affilò lo sguardo fissando Gart Dooley che soffocava nel suo sangue schiumoso, rigirò la foto fra le dita e gliela lanciò in faccia come si tira una carta da poker sul ghigno all’uomo che ha barato. Poi se ne andò lasciandolo lì a morire.

MESSAGGIO DALL'AUTORE
 
Volevo un western che richiamasse il filone italiano iniziato da Sergio Leone, crudo e sporco, ma volevo anche raccontare una realtà atipica e sconosciuta, volevo la notte, volevo odori forti e sentimenti repressi, volevo la velocità e la dannazione. In Portland ho inserito tutto questo. Buona lettura.
Aurora Redville (scrittrice)
 
«Dopo averne sentito parlare così tanto non potevo non acquistare una storia ambientata nella città da me visitata. Inoltre l’anteprima mi ha davvero colpita!»
Mattia Pirola (scrittore)
 
«Questa è l’opera di una persona molto preparata sul difficile e misconosciuto genere che ha scritto.»

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