Essere un Pinkerton
- Simone Giusti
- 11 ago 2016
- Tempo di lettura: 4 min

La maggior parte usa le Colt, Smith & Wesson, Remington, Le Mat. Io no, io uso la Volcanic. È un incrocio tra una pistola e un fucile, si carica a leva; la tengo nella fondina da gamba. È un po’ più lenta se si deve fare un’estrazione rapida, ma quando la tieni in mano e lo prendi pieno, il tizio davanti a te non ha neanche il tempo di guardarsi le budella di fuori che è già andato al creatore.
Avevo sedic’anni quando scoppiò la Guerra civile. Partii come fuciliere di trincea. Mi sono fatto le Bull Run e Antietam; mi sono fatto le migliori.
Quando la guerra finisce e torni a casa, non sei più normale. Tutta quella merda ti rimane dentro. Ad Antietam, quando i cannoni smisero di sparare, il fumo si abbassò e dovetti correre insieme agli altri nel campo di grano falciato ad altezza delle ginocchia, mi ritrovai ad affondare fino alle caviglie nella melma. Eppure non aveva piovuto. A ogni passo il sangue sgorgava fuori come da una spugna bagnata. L’odore acre entrava in gola, in bocca masticavo quello ferroso del sangue.
I corpi dei sudisti erano riversi gli uni sugli altri, come una massa informe di braccia staccate, gambe con le ossa di fuori, pance aperte e viscere che fumavano ancora. Il molti si lamentavano, ed erano versi che ti entravano nello stomaco e te lo mettevano sottosopra. Il mio compito era quello di finire i sopravvissuti a colpi di baionetta. Il mondo non è più lo stesso dopo che hai appoggiato la lama alla gola di un uomo che ti guarda fisso (e gli occhi sembrano acqua e la bocca sbuffa fuori respiri convulsi) e poi premi, la lama va giù, lui fa un verso che, cristosanto!, non te lo puoi togliere dal capo (ti resta lì, quel verso), e poi il sangue esce fuori. Quegli occhi ti guardano ancora, e allora colpisci di nuovo, e ancora, e ancora, finché non gli hai distrutto il viso e quegli occhi non ti guardano più.
Si torna a casa diversi dopo che si son fatte cose così.

La maggior parte dei tizi che hanno fatto la guerra fingono di essere come prima, forse mentono bene. Molti altri si son messi a fare i pistoleri; e sono i più. Sarebbe stata anche la mia fine se non avessi conosciuto Allan Pinkerton e non avessi deciso di entrare tra i suoi. Da quel giorno ho fatto carriera, ho dato la caccia ai bastardi del Sud, ho fatto cosette alle loro puttane. Poi ebbi l’incarico di fare da scorta armata a un ex colonnello di New York. Io e una decina di uomini con me.
Non ebbi modo di parlare direttamente col Signor McLoughlin (l’avevo visto solo di sfuggita sotto il cappotto coi baveri tirati su e il cappello pigiato in capo), non parlai mai con lui fino a metà di quel viaggio in treno. Era un giorno pieno di sole, il cielo era azzurro, le praterie verdi e sconfinate. Il treno si era fermato per fare il pieno d’acqua al serbatoio tra Dickinson e Glendive. Io me ne stavo seduto a guardar fuori quando venne il segretario del signor McLoughlin; era sudato, continuava a premersi il fazzoletto sugli angoli della bocca, gli occhialini erano appannati. Mi disse che il signor McLoughlin voleva parlare con me.
Il vagone del signor McLoughlin era un ufficio con carta da parati, mobilio pregiato di legno scuro e un letto dietro un separé.
Il signor McLoughlin sedeva in maniche di camicia sulla poltrona, teneva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e sorseggiava da un bicchiere. In mano aveva la sua cintura di cuoio, le braccia erano coperte di sangue, gli schizzi macchiavano il bianco della camicia; lui era sudato. Spostando un po’ la testa mi accorsi che nel letto c’era la sua signora, nuda, legata per le mani e per i polsi, era coperta di strisciate rosse da cui lacrimava sangue lavato. Aveva il volto rigato e la bocca contratta in un’espressione oscena. C’era anche un altro uomo legato per terra in fondo al letto. Fu il segretario con gli occhialini a spostare il separé perché lo vedessi. Era raggomitolato su se stesso, nudo, anche lui coperto di frustate, piagnucolava. Il letto era sfatto come se due ci avessero fatto l’amore.
Poi il Signor McLoughlin alzò lo sguardo e mi fissò. Non potrò mai dimenticare quegli occhi piccoli e neri. Mi disse di prendere quel cane. Mi disse proprio così. Cane. La voce era roca, i denti stridevano insieme. Mi disse di trascinarlo fuori, legarlo per le palle a un cavallo e farci il rodeo. E visto che indugiavo, sgranò gli occhi e piegò il capo. Fu come un lupo che ti sta per azzannare. Non disse altro, bastò questo perché capissi che dovevo eseguire.

Io e miei uomini portammo fuori il tizio che continuava a piangere e strillare. Lo legammo come mi era stato ordinato; per i coglioni. Poi feci salire uno dei miei in sella e sculacciai il cavallo. L’ultimo sguardo che mi aveva rivolto quel tizio era bagnato e supplichevole come quello del sudista a cui in quella maledetta pianura vicino all’Antietam avevo aperto la gola. Gli sguardi così mi facevano incazzare.
Lo spettacolo durò poco; lo scroto di un uomo non regge a lungo a sollecitazioni del genere, la pelle si strappa. Ci pensai io a finire il tizio. Gli sparai in testa con la mia Volcanic. Il cranio si aprì in quattro come un fico maturo.
Per tutto il tempo i passeggeri non aveva osato metter fuori i nasi dai finestrini. Questo era il potere di McLoughlin, e quel giorno lì lo imparai.
In quanto alla moglie del signor McLoughlin, scappò durante la tortura al suo amante e la ritrovammo il giorno dopo a dieci miglia dal treno. Si era legata una corda alla gola e si era strangolata.
Sarei potuto morire a sedic’anni e finire dimenticato in una delle migliaia di fosse comuni, o tornarmene al Nord e cercare di vivere una vita normale, oppure fare il pistolero. E invece sono un Pinkerton e servo l’uomo più potente di Portland. Devo dire che mi è andata più che bene.
Pit, 13 settembre 1882
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